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Giambattista Marino (Napoli, 1569 - Napoli, 1625) è senza dubbio l’esponente più significativo del Barocco letterario italiano. Scrisse numerose opere in prosa (“Dicerie sacre” e “Lettere”) e in versi (molte raccolte di liriche: “La lira”, “La Galeria”, “La Sampogna”), tra cui la più importante è senza dubbio “L’Adone” (ottima l'edizione in cofanetto di La Finestra).

Il poema "Adone" narra l'amore di Venere e del giovane bellissimo Adone che finirà per essere ucciso da un cinghiale, lanciatogli contro dal geloso Marte. La trama si stende per 20 lunghissimi canti, per un totale di 45.000 versi in rima, tre volte di più della "Divina Commedia", poiché il Marino coltivava l'ambizione di scrivere non "un" poema, ma "il" poema che superasse tutti gli altri. Nella sua poetica ritroviamo tutti gli elementi del gusto barocco (concettismo, metafore, argutezza) e dalla trama principale che funge da filo conduttore dell’opera, nascono diversi episodi secondari e molte divagazioni fortemente allegoriche, caratterizzate da una raffinatissima esteriorità linguistica, che conferiscono all'opera un'opulenza squisitamente barocca. E proprio per questi aspetti l'"Adone" ha anche una grandissima valenza e legittimità storica, in quanto rispecchia fedelmente il gusto prevalente nel secolo e perché, come osserva il Getto, “insieme con la meraviglia ricercata come emozione per il lettore, il poema esprime una meraviglia spontanea, che è l'emozione, lo stupore, la gioia del possesso che il Marino prova nel raccogliere, come in una raffinata e stupenda galleria, gli aspetti più svariati della realtà, gli oggetti più rari e preziosi”, poiché egli, come la maggior parte dei suoi contemporanei, “indifferente al mondo interiore, è proiettato verso quel che è esterno all'uomo”.

Per questo il Marino vede anche l'amore in modo esteriore: lo vede, osserva ancora il Getto, "come aspetto fisico e sfogo dei sensi, con varianti che vanno dall'accensione violenta al languore e alla mollezza, elemento quest’ultimo che tende a prevalere. Così l'ideale maschile viene rappresentato non dalla virilità muscolosa e guerriera di Marte, ma dall'adolescenza effeminata e languida di Adone, non immune da un'ombra di ambiguità. L'amore appare comunque come l'occupazione dominante, il pensiero principale di una vita elegante e lussuosa, e sembra diventare esso stesso una forma di lusso". Così l'Adone potrebbe essere definito “un poema di lusso e di lussuria, nel quale si celebra il senso di una vita colma e gioiosa, su cui però passa un'ombra fuggevole di malinconia e di morte, che si traduce sempre in una superficiale coscienza tutta terrena del tempo che fugge e quindi in un invito a godere più intensamente la vita nel presagio del giorno della morte”.

Un passo famosissimo dell'Adone è l'elogio della rosa da parte di Venere che, punta a un piede dalle sue spine, si reca a lavarsi la ferita presso una fonte, nelle cui vicinanze scorge l'adolescente pastorello Adone, addormentato sull'erba, di cui subito ella s'innamora, non dimenticando però di ringraziare la rosa senza la quale non sarebbe avvenuto il suo innamoramento. Questo passo rivela quante soluzioni potesse un seicentista ricavare virtuosisticamente dalla tecnica della metafora, basta pensare al primo verso “Rosa, riso d'amor, del ciel fattura” dove il poeta con sole undici sillabe riesce a paragonare la rosa ad un sorriso d’amore e ad una creazione celeste. Sono in esso presenti, peraltro, i tratti essenziali della poesia del Marino: le balenanti metafore, un voluttuoso languore e la vena musicale, ora intima e suadente, ora e più spesso risolta in fastose architetture sonore.

Rosa, riso d'amor, del ciel fattura,
Rosa del sangue mio fatta vermiglia,
Pregio del mondo e fregio di natura,
Della Terra e del Sol vergine figlia,
D'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
Onor dell'odorifera famiglia;
Tu tien d'ogni beltà le palme prime,
Sopra il vulgo de' fior donna sublime.

Quasi in bel trono imperatrice altera
Siedi colà su la nativa sponda;
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
Ti corteggia d'intorno e ti seconda;
E di guardie pungenti armata schiera
Ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
Porti d'or la corona e d'ostro il manto.

Porpora de' giardin, pompa de' prati,
Gemma di primavera, occhio d'aprile,
Di te le grazie e gli amoretti alati
Son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
Ape leggiadra, o zeffiro gentile,
Dài lor da bere in tazza di rubini
Rugiadosi licori e cristallini.

Non superbisca ambizioso il sole
Di trionfar fra le minori stelle,
Chè ancor tu fra i ligustri e le viole
Scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
Splendor di queste piagge, egli di quelle;
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
Tu sole in terra ed egli rosa in cielo.

E ben saran tra voi conformi voglie:
Di te fia 'l sole, e tu del sole amante.
Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
L'aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne' crini e nelle foglie
La sua livrea dorata e fiammeggiante;
E per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai sempre un picciol sole in seno.

E perch’a me d’un tal servigio ancora
qualche grata mercé render s’aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual donna più bella il mondo onora
io vo’ che tanto sol bella sia detta,
quant’ornerà del tuo color vivace
e le gote e le labra. – E qui si tace.
                     [Adone Canto III, 156-161]


Indimenticabili sono anche i passi in cui viene per la prima volta descritto Adone e in cui Venere s'innamora.

Era Adon nel’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva
ed avea dispostezza ala novella
acerbità degli anni intempestiva,
né su le rose dela guancia bella
alcun gemoglio ancor d’oro fioriva
o, se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato o stella in cielo.

In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine;
del’ampia fronte in maestà ridente
sotto gli sorge il candido confine;
un dolce minio, un dolce foco ardente,
sparso tra vivo latte e vive brine,
gli tinge il viso in quel rossor che suole
prender la rosa infra l’aurora e’l sole.

Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene?
chi dele dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
o qual candor d’avorio o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un ciel di meraviglie in quel bel volto?

Qualor feroce e faretrato arciero
di quadrella pungenti armato e carco,
affronta o segue, inun leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco
e in atto dolce cacciator guerriero
saettando la morte incurva l’arco,
somiglia intutto Amor, senon che solo
mancano a farlo tale il velo e’l volo.

Egli tanto tesoro in lui raccolto
di natura e d’amor par ch’abbia a vile
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il sole, inorridir l’aprile,
ma, minacci cruccioso o vada incolto,
esser però non sa senon gentile
e, rustico quantunque e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
                     [Adone Canto I, 41-45]

A piè di questo i suoi giardini ha Clori
e qui la dea d’amor sovente riede
a corre i molli e rugiadosi odori
per far tepidi bagni al bianco piede.
Ed ecco sovra un talamo di fiori
qui giunta a caso, il giovinetto vede.
Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo,
Amor crudele in lei rivolge il dardo.
                     [Adone Canto III, 16]


Per concludere riporto due passi del quinto canto, "Il Giardino del Piacere", dove Venere parla di suo figlio Amore ed in particolare nel primo, rivolgendosi a lui, le dice quello che pensa.

– Tu piagni (gli dicea) tu crudo e rio,
che di lagrime sol ti pasci e godi?
E pur dianzi dormivi e pur, cred’io,
sognavi ancor dormendo insidie e frodi.
Tu che turbi i riposi al dormir mio
e m’inganni e schernisci in tanti modi,
tu, che’l sonno interrompi ai mesti amanti,
dormivi forse al mormorar de’ pianti? –

Così dice e’l minaccia e da’ bei rai
folgora di dispetto un lampo vivo;
ma’l suo vezzoso Adon, che non sa mai
il bei volto veder senon giolivo,
corre a placarla e – Serenate omai
quel sembiante (le dice) irato e schivo.
Vorrò veder, s’ad impetrar son buono
dal vostro sdegno il suo perdono in dono. –

Come veduto il pasto, in un momento
mordace can la rabbia acquetar suole
o come innanzi al più sereno vento
si dileguan le nubi e riede il sole,
così del’ira ogni furore ha spento
Venere ale dolcissime parole.
– Piace (risponde) a me, poich’a te piace,
per maggior guerra mia, dargli la pace.

Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio,
quanto puoi nel’amor puoi nelo sdegno.
E che curar degg’io di cieco figlio?
Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.
Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;
tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;
Amor ha il foco e tu dai l’esca; Amore
m’uscì del seno e tu mi stai nel core.
                     [Adone Canto V, 156-159]

Adon bella mia pena e caro affanno,
luce degli occhi miei, fiamma del core,
guardati pur da questo rio tiranno,
ch’alfin non sene trae, senon dolore. –
Così parla Ciprigna e’ntanto vanno
fuor del boschetto, ove trovaro Amore.
Amor si va le lagrime tergendo,
e con occhio volpin ride piangendo.
                     [Adone Canto V, 206]

E’ anche corretto considerare che l’Adone si presenta come una specie di enciclopedia poetica, in cui il Marino tenta di raccogliere tutti gli aspetti e gli oggetti del mondo fisico e le più varie reminiscenze letterarie, con un desiderio di esaurire tutto ciò che si può dire in poesia. Questo atteggiamento determina quel senso di meraviglia continuamente rinnovato, con cui il poeta elenca i suoi oggetti, tanto più che si tratta delle forme più preziose e più ricche che il mordo possa offrire. Non l'interiorità interessa al Marino, se l'unico sentimento che appare con continuità nel poema è quello amoroso, ma ridotto alla pura sensualità. In questa poesia delle cose e dei sensi è inevitabilmente presente la coscienza del tempo che rapisce le gioie e le liete parvenze della vita: non è il solo elemento che il Marino ha in comune col Tasso, il poeta che tanta parte ha nella formazione della sensibilità barocca.